Siamo tornati in Kurdistan. Anche questa volta in viaggio tra i fronti che dividono questo piccolo paese dai territori controllati dallo Stato Islamico. Ci concentriamo nella zona di Kirkuk, una città che in passato è stata al centro del processo di “arabizzazione” fortemente voluto dall’ex Ra’is Saddam Hussein: case, scuole e massicci investimenti pubblici per attirare più arabi possibile a vivere in quella che storicamente era ed è una città curda. Ma capita spesso che la storia si faccia da parte davanti al pragmatismo dei presidenti. Naft al-‘arab li l-‘arab!, il petrolio degli arabi è per gli arabi! Il nazionalista Al-Turayqi urlava questo slogan sul finire degli anni ’70, ma da queste parti è rimasto particolarmente in voga nonostante i tanti anni passati, prova di come la storia possa essere riscritta a proprio uso, soprattutto quella di Kirkuk, una città che si estende su un vero e proprio letto di petrolio e che per questo l’ISIS sogna di conquistare.
Da queste parti si contano più raffinerie che bar e l’odore di benzina è una presenza costante, causa di forti mal di testa la sera. Nel giugno del 2014 la città è tornata sotto il controllo più o meno totale delle forze curde. Lo stesso periodo in cui le città arabe cadevano una dietro l’altra e l’esercito iracheno armato e addestrato dagli Stati Uniti preferiva darsela a gambe, regalando all’ISIS terreno e armi.
Oggi a Kirkuk si parla quasi solo curdo e basta chiedere un po’ in giro per sentirsi rispondere che “mai e poi mai tornerà in mano agli arabi”. La città si trova a 250km dalla capitale dell’Iraq Baghdad ed è nel mezzo tra i due più grandi centri curdi: Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno e Sulaymanyah, seconda città del paese. É a Kirkuk che si inizia a percepire la tensione.
Gli arresti di terroristi dello Stato Islamico sono all’ordine del giorno; gli attentati non sono rari e morire in mezzo ad una rotonda in macchina non è una circostanza così remota. Inoltre basta riflettere qualche istante per rendersi conto che i fronti più caldi che fanno da confine con il Califfato sono poche decine di chilometri. Noi decidiamo di visitarne qualcuno: Maryam Bag e Tel Warad sono le prime linee che raggiungiamo. Il viaggio in macchina da Kirkuk è breve, ma dobbiamo attendere il permesso da parte del peshmerga in comando per raggiungere le postazioni a pochi metri dalle bandiere nere.
Mano a mano che si procede le macchine civili spariscono per fare spazio a mezzi militari e check point. Calpestiamo il terreno che fino a qualche mese fa era in mano all’ISIS. Si aprono di fronte a noi immensi spazi da poco conquistati dai peshmerga. Il militare che ci accompagna ci racconta di come i terroristi scavino tunnel sottoterra per sbucare dall’altra parte e attaccare di sorpresa la base curda: “Vengono fuori all’improvviso, in mezzo ai campi”. L’atmosfera a Tel Warad è pesante, i militari sono pochi e l’idea che un terrorista sbuchi all’improvviso da dietro una pianta fa gelare il sangue. Andiamo avanti, fino a raggiungere la prima linea. Una ventina di soldati sta dietro i sacchi riempiti di terra e controlla i movimenti dall’altra parte. Le postazioni dell’ISIS sono a pochi metri e i conflitti a fuoco non sono rari.
“Non sono veri e propri combattimenti. Quelli non li abbiamo da più di un mese, ma quasi tutti i giorni ci sono conflitti a fuoco”, ci spiega il comandante. Veniamo invitati a bere tè e a fermarci per la cena. Decidiamo di rimanere un po’ a parlare. Sembrano tutti contenti di dirci la loro: “Come peshmerga guadagno molto poco. Sono soldi che non bastano a mantenere la mia famiglia. Ma mi sento obbligato a fare qualcosa, questa è la mia terra, non posso lasciarla in mano ai terroristi” racconta un giovane peshmerga. Il comandante ci spiega che le armi sono poche e che presto saranno finite anche le munizioni: “Tutto quello che ci è arrivato da fuori sono questi fucili tedeschi, ma purtroppo non abbiamo i mezzi per respingere gli attacchi suicidi. Quelli (i terroristi) riempiono le macchine di esplosivo. Un “martire” alla guida può arrivare facilmente fino a qui, ma noi non abbiamo nulla per respingere attacchi di questo tipo”.
Il comandante ritrova il sorriso quando gli chiediamo se sa cosa l’Italia sta facendo in Kurdistan: “Siamo molto grati all’Italia per quello che sta facendo. Sappiamo che i vostri sono venuti ad addestrare i peshmerga. Questa cosa ci riempie di orgoglio”. E’ ora di andare, la luce tra poco sarà poca e l’idea di tornare indietro al buio non ci entusiasma. Salutiamo e ringraziamo per l’ospitalità. Ma prima di andare un soldato mi ferma e mi chiede: “Potresti mica regalarmi i tuoi calzini?”